
“Si stava meglio quando si stava peggio” – Chi non ha mai sentito almeno una volta la mitica frase: “Eh… ai mie i tempi sì che…” – seguita da una raffica di racconti epici su come si facevano cento chilometri a piedi per andare a scuola, si lavava con l’acqua gelata del pozzo e si mangiava pane raffermo “che però aveva sapore, mica come ‘ste merendine piene di olio di palma!”.
Ora, tra una risata e una smorfia di perplessità, ci viene spontanea una domanda: Si stava davvero meglio quando si stava peggio? O è solo l’effetto collaterale di una memoria selettiva e un po’ nostalgica, magari condita con una punta di rimpianto per un mondo che sembrava più semplice, più genuino, più… lento?
Il fascino del passato: verità o mito rurale?
C’è qualcosa di irresistibile nell’idea che una volta sì che era tutto meglio.
I pomodori avevano sapore, i bambini giocavano con due bastoni e un sasso ma si divertivano lo stesso, e nessuno aveva bisogno del Wi-Fi per essere felice. Si viveva di poco, ma quel poco era “buono, genuino e fatto in casa” (come recitano oggi le etichette più furbe del supermercato).
Ma dietro questa romantica visione si nasconde, diciamolo, anche una discreta amnesia collettiva.
Perché è vero che c’erano le estati nei campi, i pranzi lunghi di famiglia e le feste di paese con le sedie in plastica bianca e le orchestre che facevano tremare i lampioni… ma c’erano anche le stufe a legna da caricare alle sei del mattino, la vita che girava attorno alle stagioni e al gallo, e quella leggera sensazione di precarietà esistenziale che ti accompagnava ogni volta che pioveva troppo o il raccolto andava male.
Non è per dire che tutto fosse brutto, anzi. Ma forse, più che “meglio”, si stava più insieme, ci si annoiava in gruppo, si aveva meno ma si condivideva di più. Poi certo, se avessimo chiesto a una contadina degli anni ‘50 cosa pensasse del nostro frullatore multifunzione o della lavatrice che si programma da sola… magari avrebbe mollato la zappa seduta stante.
La modernità ci ha davvero migliorato la vita?
Svegliarsi con una notifica che ti ricorda di meditare, mentre il robot aspirapolvere ti gira attorno e il caffè si prepara da solo, ha un certo fascino. Viviamo nell’epoca in cui puoi ordinare cibo, parlare con un’amica a 10.000 km di distanza e vedere in tempo reale se sta piovendo a Kathmandu – tutto senza alzarti dal divano. Ma questo non ci ha resi automaticamente più felici. Forse solo più ansiosi, iperconnessi e con un principio di tunnel carpale da scroll compulsivo.
La modernità ci ha regalato comodità impensabili:
- riscaldamento centralizzato,
- antibiotici,
- acqua calda a comando,
- voli low-cost,
- podcast sul minimalismo ascoltati mentre si fa jogging con scarpe da 180 euro.
Ma ci ha tolto anche qualcosa.
Il silenzio, per esempio.
L’ozio vero, quello non pianificato.
La possibilità di perdersi davvero, senza GPS che ti raddrizza come una maestra delle elementari.
E mentre cerchiamo di “ottimizzare” ogni aspetto della nostra esistenza – dalla produttività mattutina alla qualità del sonno – ci accorgiamo che forse non siamo diventati più liberi, ma solo più occupati. E ci servono app per ricordarci di respirare.
Viaggiare ieri e oggi: dall’autostop alla Ryanair
Una volta si viaggiava con l’Atlante stradale sul sedile del passeggero, un panino all’uovo nello zaino e la fede cieca nell’umanità (o almeno negli automobilisti). L’autostop era arte, filosofia e rischio calcolato. Bastava un pollice sollevato e un sorriso – spesso infangato da giorni di campeggio libero – per attraversare mezza Europa, dormendo dove capitava e facendo amicizia con camionisti, pecore e vecchiette curiose.
Oggi, si parte con sei app aperte, il powerbank carico, assicurazione viaggio, itinerario su Google Maps e due backup su cloud. E il viaggio, prima ancora di cominciare, è già stato pianificato nei minimi dettagli, con recensioni, commenti e mappe dei bagni pubblici disponibili lungo il tragitto.
Sia chiaro: non è una gara a chi soffre di più. La modernità ha reso il viaggio più accessibile, più sicuro, spesso anche più inclusivo. Ma ha perso un po’ del gusto dell’imprevisto, quel brivido di non sapere dove si dormirà (e se si dormirà) o chi si incontrerà sul cammino.
Il viaggio lento, oggi, è una scelta quasi rivoluzionaria. Una dichiarazione d’intenti contro l’ossessione per l’efficienza. E allora eccoci qui, ex millennials con la nostalgia dei boomers, a cercare ostelli senza Wi-Fi e a camminare tre giorni per raggiungere un rifugio dove finalmente non prende il telefono. Perché a volte, per ritrovare il senso del viaggio, bisogna dimenticare la destinazione.
Dal pollice al selfie: evoluzione del viaggiatore
Ecologia, consumo e sostenibilità: chi è davvero più “green”?
Oggi parliamo tanto di sostenibilità, ma chi sono i veri ambientalisti? Quelli che fanno la raccolta differenziata con apposita etichettatura cromatica o le nonne che conservavano i barattoli del caffè per metterci i fagioli secchi, il cotone e pure i bottoni?
Nel mondo di ieri, lo spreco era un lusso che nessuno poteva permettersi. I vestiti si rattoppavano, il pane raffermo si trasformava in polpette e l’acqua di cottura si usava per annaffiare le piante. Oggi, invece, compriamo borracce di design per evitare la plastica ma le facciamo arrivare dalla Svezia in confezioni multistrato. Facciamo la spesa nei negozi sfusi, ma ci arriviamo in SUV ibrido.
Un passo avanti e due all’indietro, ma con stile.
Eppure, qualcosa si muove.
Sempre più persone si interrogano sul proprio impatto, scelgono di viaggiare a piedi o in bici, riscoprono l’autoproduzione, il baratto, lo scambio. Stiamo imparando, lentamente, che ecologico non vuol dire solo “certificato bio” ma anche “riparo, riuso, riscopro”. Non servono pannelli solari per essere sostenibili: a volte basta ricordarsi come facevano loro, quelli del “quando si stava peggio”.
Forse la vera rivoluzione ecologica è proprio questa: guardare indietro senza snobismo, imparare dai gesti semplici e portare quel sapere nella nostra vita iperconnessa. Perché sì, è bellissimo mangiare avocado toast biologico, ma ogni tanto sarebbe il caso di riscoprire anche la zuppa di cipolle, che fa bene, costa poco e non viaggia in business class per arrivare nel piatto.
Il futuro è un passato aggiornato?
Alla fine della fiera, forse la domanda “si stava meglio quando si stava peggio?” non ha una risposta definitiva.
È un po’ come chiedersi se è meglio il vinile o Spotify, la bici da corsa o il monopattino elettrico, il pane cotto a legna o quello “gluten free”. Dipende. Dipende da chi sei, da cosa cerchi, da quanto sei disposto a rallentare e a metterti in discussione.
Non è detto che si stesse davvero meglio, ma sicuramente si viveva in modo più semplice. E forse oggi, sommersi da stimoli, scelte e algoritmi, è proprio quella semplicità che ci manca. Non per tornare indietro, attenzione: nessuno qui vuole rinunciare alla lavatrice o ai diritti civili. Ma possiamo guardare a quel passato con curiosità, estrarne il buono, il sostenibile, il condivisibile, e portarlo nel nostro presente ipertecnologico, magari con una spruzzata di consapevolezza in più.
In fondo, il futuro non deve per forza essere un luogo completamente nuovo. Può anche essere una versione migliorata del passato, con qualche aggiornamento software.
Magari meno plastica, più orti.
Meno notifiche, più silenzi.
Meno fretta, più viaggi lenti.
E, se proprio dobbiamo sbagliare, facciamolo almeno con stile. E con una zuppa di cipolle a cuocere sul fuoco.
si stava meglio quando si stava peggio
Se questo tema ti ha fatto riflettere, ti consigliamo di leggere l’articolo del Guardian “The Big Idea: Is Convenience Making Our Lives More Difficult?” — un approfondimento brillante sul paradosso della vita moderna e su come l’ossessione per la comodità potrebbe renderci, in fondo, meno liberi.
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